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Corte di Cassazione – Sezione Seconda Penale Sentenza 30 gennaio 2018 n. 4367
Videoriprese lavoratori infedeli. Una recente sentenza della Corte di Cassazione chiarisce la liceità dell’utilizzo di telecamere per poter accertare comportamenti infedeli ed indagare sull’assenteismo dei dipendenti quando ciò comporti reato. Pronunciandosi su un ricorso proposto avverso la sentenza con cui la Corte d’appello aveva confermato, per quanto di interesse, la responsabilità penale di una donna per il reato di appropriazione indebita in relazione a fatto commesso all’interno del luogo di lavoro, la Corte di Cassazione – nel dichiarare inammissibile la tesi difensiva che aveva eccepito l’inutilizzabilità delle immagini captate con il sistema di video sorveglianza – ha ribadito che sono utilizzabili nel processo penale, ancorché imputato sia il lavoratore subordinato, i risultati delle videoriprese effettuate con telecamere installate all’interno dei luoghi di lavoro ad opera del datore di lavoro per esercitare un controllo a beneficio del patrimonio aziendale messo a rischio da possibili comportamenti infedeli dei lavoratori, in quanto le norme dello Statuto dei lavoratori poste a presidio della loro riservatezza non fanno divieto dei cosiddetti controlli difensivi del patrimonio aziendale e non giustificano pertanto l’esistenza di un divieto probatorio.
Articolo a cura di Europol Investigazioni, società specializzata in business informations
La Suprema Corte però ha sancito sia la leicità dell’installazione delle telecamere nonché l’utilizzo delle riprese poiché le garanzie previste dall’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori non trovano applicazione quando si procede all’accertamento di fatti che costituiscono reato, poiché tali garanzie riguardano esclusivamente i rapporti interni di diritto privato tra datore di lavoro e lavoratore.
Infatti, esplicita la Suprema Corte, entrambi i giudici di merito con motivazione esaustiva, logica e non contraddittoria hanno ben evidenziato le ragioni per le quali ritengono la ricorrente responsabile del reato di appropriazione indebita. In particolare: 1) hanno correttamente valutato le prove (dichiarazioni testi e riprese visive effettuate dalla telecamera installata all’interno del luogo di lavoro; si vedano le pagine: da 2 a 5 della sentenza di primo grado e le pagine 5 e 6 della sentenza impugnata); 2) hanno ritenuto giustamente utilizzabili i risultati delle videoriprese effettuate con la telecamera installata all’interno del luogo di lavoro evocando anche un condiviso e consolidato principio di questa Corte secondo il quale sono utilizzabili nel processo penale, ancorchè imputato sia il lavoratore subordinato, i risultati delle videoriprese effettuate con telecamere installate all’interno dei luoghi di lavoro ad opera del datore di lavoro per esercitare un controllo a beneficio del patrimonio aziendale messo a rischio da possibili comportamenti infedeli dei lavoratori, in quanto le norme dello Statuto dei lavoratori poste a presidio della loro riservatezza non fanno divieto dei cosiddetti controlli difensivi del patrimonio aziendale e non giustificano pertanto l’esistenza di un divieto probatorio (Sez. 5, Sentenza n. 34842 del 12/07/2011 Ud. – dep. 26/09/2011 – Rv. 250947; Sez. 2, Sentenza n. 2890 del 16/01/2015 Ud. – dep. 22/01/2015 – Rv. 262288; Sez. 5, Sentenza n. 11419 del 17/11/2015 Ud. – dep. 17/03/2016 – Rv. 266372). Nè, ovviamente, ha alcuna incidenza negativa sulla legittimità delle videoriprese effettuate, la circostanza – la cui sussistenza è stata, tra l’altro, affermata apoditticamente – che le riprese siano state eseguite “non in maniera consequenziale, non progressivamente, ma solo a giorni ed orari scelti dai titolari della gelateria”. Infatti quello che rileva e che quanto ripreso ha pienamente confermato quanto riferito dai testi; 3) hanno fornito un’incensurabile spiegazione del perchè hanno ritenuto “inverosimile la versione della prevenuta” (si vedano le pagine: 4 e 5 della sentenza di primo grado e pagine 5 e 6 della sentenza impugnata). Videoriprese lavoratori infedeli: lecite.
Prima di soffermarci sulla, interessante, pronuncia resa dalla Suprema Corte, è opportuno qui ricordare che lo Statuto dei lavoratori sancisce il divieto assoluto di utilizzo di impianti audiovisivi e di altre apparecchiature per finalità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori. In particolare, l’art. 4, legge 20 maggio 1970, n. 300, sotto la rubrica «Impianti audiovisivi e altri strumenti di controllo», così recita: “1. Gli impianti audiovisivi e gli altri strumenti dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori possono essere impiegati esclusivamente per esigenze organizzative e produttive, per la sicurezza del lavoro e per la tutela del patrimonio aziendale e possono essere installati previo accordo collettivo stipulato dalla rappresentanza sindacale unitaria o dalle rappresentanze sindacali aziendali. In alternativa, nel caso di imprese con unità produttive ubicate in diverse province della stessa regione ovvero in più regioni, tale accordo può essere stipulato dalle associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale. In mancanza di accordo, gli impianti e gli strumenti di cui al primo periodo possono essere installati previa autorizzazione della sede territoriale dell’Ispettorato nazionale del lavoro o, in alternativa, nel caso di imprese con unità produttive dislocate negli ambiti di competenza di più sedi territoriali, della sede centrale dell’Ispettorato nazionale del lavoro. I provvedimenti di cui al terzo periodo sono definitivi. 2. La disposizione di cui al comma 1 non si applica agli strumenti utilizzati dal lavoratore per rendere la prestazione lavorativa e agli strumenti di registrazione degli accessi e delle presenze. 3. Le informazioni raccolte ai sensi dei commi 1 e 2 sono utilizzabili a tutti i fini connessi al rapporto di lavoro a condizione che sia data al lavoratore adeguata informazione delle modalità d’uso degli strumenti e di effettuazione dei controlli e nel rispetto di quanto disposto dal decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196”. Ed infatti, tale materia è regolata anche dalla disciplina legislativa posta a tutela dei dati personali e contenuta nel d.lgs. 196/2003, poiché la raccolta, la registrazione e in generale l’utilizzo di immagini configura un trattamento di dati ai sensi dell’art. 4, co. 1, lett. b), d.lgs. 196/2003.
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VIDEORIPRESE LAVORATORI INFEDELI: GLI ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI
A tale quadro normativo fanno eco due contrapposti orientamenti in ordine alla utilizzabilità dei risultati di videoriprese svolte dal datore sul luogo di lavoro per cogliere eventuali illeciti ivi commessi dai suoi dipendenti. Ed infatti, mentre la giurisprudenza di legittimità in sede civile si è tradizionalmente divisa in due distinti orientamenti – atteso che alcune pronunce, nel bilanciamento tra i contrapposti interessi della riservatezza del lavoratore e del datore di lavoro, hanno ritenuto prevalenti le seconde tutte le volte in cui si faccia questione di videoriprese eseguite a scopi difensivi del patrimonio aziendale (v. ad es., Cass. sez. lav., 10 luglio 2009, n. 16196, in C.E.D. Cass. 609379), altre più recenti, invece, hanno ritenuto che in detto bilanciamento non possa che prevalere la tutela della riservatezza del lavoratore, da cui la conseguente inammissibilità delle videoriprese e la inutilizzabilità dei loro risultati anche nel processo penale a carico del dipendente (Cass. sez. lav., 17 luglio 2007, n. 15892, in C.E.D. Cass. 598745; Cass. sez. lav., 1 ottobre 2012, n. 16622, in C.E.D. Cass. 624112) – diversamente, la giurisprudenza di legittimità in sede penale ha sostanzialmente ritenuto dette videoriprese utilizzabili a fini probatori nel processo penale.
Secondo una lettura (Cass. pen., 1 giugno 2010, n. 20722, in C.E.D. Cass. 247588), la ragione andrebbe rinvenuta nel principio di fondo seguito dalle Sezioni penali, cioè a dire la prevalenza del prioritario interesse pubblico alla prevenzione ed accertamento dei reati rispetto alla riservatezza dei dipendenti. Unica voce contraria è quella (Cass. pen., Sez. 3, n. 40199 del 16/10/2009, M., CED Cass. 244902), avendo infatti affermato che commette il reato contravvenzionale dell’art. 38 St. Lav. il datore di lavoro che installi un sistema di videosorveglianza senza la preventiva autorizzazione sindacale o amministrativa. Alla lettura dominante nella giurisprudenza penale si contrappongono alcune critiche. In particolare, si sottolinea che i controlli “a scopi difensivi” non sono espressamente previsti dal legislatore, ma sono frutto di una giurisprudenza creativa; che, in secondo luogo, l’art. 4 St. Lav. parla di «attività dei lavoratori» e non di «attività lavorativa», di talché il correlativo divieto sarebbe esteso ad ogni comportamento tenuto dal lavoratore nell’azienda. Infine, che, ad ogni buon conto, non sarebbe possibile distinguere a priori il controllo sull’attività lavorativa del dipendente dal controllo di suoi potenziali , comportamenti illeciti (Dossi, Controlli a distanza e legalità della prova: tra esigenze difensive del datore di lavoro e tutela della dignità del lavoratore, in DRI, 2010, pp. 1155 ss.).
Tanto premesso, nel caso in esame, l’imputata, condannata per il reato di appropriazione indebita commessa sul luogo di lavoro grazie alle videoriprese che la ritraevano nell’atto di commettere il reato, si era difesa tentando di sostenere che inutilizzabilità delle immagini captate con il sistema di video sorveglianza. Detta tesi era stata disattesa nei gradi di merito e riproposta in Cassazione. Ma nemmeno davanti ai Supremi Giudici la tesi proposta aveva avuto successo.
Ed infatti, i giudici di legittimità hanno condiviso quanto affermato in entrambi i gradi di merito, ossia ritenendo utilizzabili i risultati delle videoriprese effettuate con la telecamera installata all’interno del luogo di lavoro evocando anche il principio secondo il quale sono utilizzabili nel processo penale, ancorché imputato sia il lavoratore subordinato, i risultati delle videoriprese effettuate con telecamere installate all’interno dei luoghi di lavoro ad opera del datore di lavoro per esercitare un controllo a beneficio del patrimonio aziendale messo a rischio da possibili comportamenti infedeli dei lavoratori, in quanto le norme dello Statuto dei lavoratori poste a presidio della loro riservatezza non fanno divieto dei cosiddetti controlli difensivi del patrimonio aziendale e non giustificano pertanto l’esistenza di un divieto probatorio.
Da qui, dunque, l’inammissibilità del ricorso.
Spesso però le infedeltà dei dipendenti o dei collaboratori non ricadono nella sfera del Diritto Penale, per cui è di basilare importanza agire nel modo corretto per ottenere prove giuridicamente rilevanti e producibili in sede civile, al fine di far valere i propri diritti. Proprio in questo caso l’attività dell’agenzia di investigazione privata regolarmente autorizzata ai sensi dell’art. 134 del TULPS è di aiuto come supporto all’azione civile; nel caso specifico in cui non sia possibile installare telecamere per controllare l’attività di un dipendente sarà un detective che controllerà l’effettiva presenza del lavoratore e la congruità fra gli orari di entrata e di uscita comunicati e quelli reali.
Una relazione investigativa munita di prove fotografiche legittimamente acquisite, unitamente alla testimonianza dell’investigatore privato in sede di giudizio, rappresentaranno prove determinanti per l’ottenimento di una sentenza favorevole che possa vedere riconosciuti i diritti del datore di lavoro nella massima discrezione a garanzia e senza ledere i diritti del lavoratore.
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Articolo aggiornato al 13 Dicembre 2021